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DIRITTO
Sistema di regole obbligatorie concernenti il comportamento dell'uomo in società. Il termine diritto preclude ogni giudizio di valore sull'organizzazione di una data società. Il fatto che un ordinamento sociale sia di tipo totalitario anziché democratico non ha rilevanza: in entrambi i casi esistono ordinamenti giuridici, ossia tecniche specifiche di organizzazione sociale. Problemi più sostanziali emergono invece quando si cerca di definire meglio che cosa sia una regola giuridica. Si possono distinguere principalmente due linee interpretative: una prima che vede nella regola una norma che prescrive il comportamento che si deve tenere in società, e una seconda per la quale la norma si limita a descrivere i comportamenti che la società ritiene rilevanti. Nel primo caso viene data importanza alle caratteristiche formali e linguistiche; nel secondo l'accento è posto maggiormente sulla realtà sociale. Da questa distinzione, che rimanda a quella filosofica tra preposizioni imperative, riguardanti il dover essere, e preposizioni descrittive, riguardanti l'essere, derivano concezioni profondamente diverse del diritto. Intendere la norma come prescrizione significa sottolineare l'aspetto linguistico della formulazione normativa, dove l'elemento caratterizzante è l'indicazione della condotta da tenere (non rubare, non uccidere ecc.). Anche altri generi di norme, però, prescrivono quale debba essere la condotta umana (per esempio quelle morali). Ciò che distingue la norma giuridica da altri tipi di norme è il suo carattere di comando. Quando però ci si chiede chi possa impartire il comando, emergono le contraddizioni insite in questa concezione. Il comando può emanare solo da chi ha l'autorità per farlo. Se però ci si chiede chi attribuisca a un dato organo l'autorità di comandare un comportamento, si è obbligati a risalire a un'ulteriore norma, dando così luogo a un rinvio continuo senza una possibile soluzione. Anche l'idea di attribuire tale potere allo stato risulta insoddisfacente perché tale organo verrebbe posto in modo extragiuridico, senz'altra giustificazione che la sua stessa esistenza. Un tentativo di uscire da questa contraddizione fu avanzato dall'austriaco H. Kelsen, uno dei maggiori giuristi del XX secolo, che mosse dalla concezione secondo la quale una norma, per far parte di un ordinamento, deve essere valida, vale a dire deve essere stata prodotta da chi ha competenza legislativa. Tale competenza è conferita da una norma superiore (quale può essere, per esempio, la costituzione), la quale a sua volta sarà stata emanata da un superiore organo legislativo, e via dicendo finché non si giunge a quella che Kelsen definì la norma fondamentale. Essa non è creata mediante un procedimento giuridico da un organo che crei il diritto. Essa non è valida [... perché è stata creata in una data maniera da un atto giuridico, ma è valida perché è presupposta valida; ed è presupposta valida, perché senza tale presupposto nessun atto umano potrebbe essere interpretato come atto giuridico, e specialmente come creativo di norma. In questo senso una rivoluzione, intesa qui in senso ampio, comprendente anche il colpo di stato, provoca un mutamento della norma fondamentale. Questo significa che dopo una rivoluzione la validità delle norme positive del vecchio ordinamento viene meno indipendentemente dalla loro abrogazione. Infatti, se pure il nuovo ordinamento rivoluzionario conserva le vecchie norme, il loro fondamento, ciò che dava validità a loro e a tutto il sistema, è modificato perché è cambiata la norma fondamentale. Questa concezione non è esente da contraddizioni perché la norma fondamentale, così intesa, non è più una norma prescrittiva, ma può essere un fatto, o meglio un evento storico che definisce un certo sistema istituzionale. Per quanto riguarda l'obbligatorietà della norma, ossia il perché la norma venga seguita, discende dalla concezione della norma come comando l'interpretazione secondo cui l'elemento cogente sia da ricercarsi nella forza. La norma ottiene obbedienza perché chi non la osserva incorre nella sanzione. Questa concezione però non riesce a spiegare il fenomeno del dissenso: se il trasgressore agisce in nome di valori ideali o morali, benché la sanzione lo punisca, la norma ha ugualmente fallito nel suo compito, ossia non è riuscita a imporre il comportamento da seguire in società. Se il dissenso prevale sulla forza questo significa che la forza non può ritenersi l'elemento che dà cogenza alla norma. Alla concezione della forza come caratteristica della norma viene contrapposto il consenso: l'obbedienza alla norma deriva da un'adesione dei membri della società non tanto alla singola norma positiva, quanto ai principi dell'ordinamento. La fonte della norma non è perciò la volontà dell'autorità, ma l'insieme delle norme inespresse che costituiscono gli scopi di un determinato gruppo sociale. La singola norma positiva troverà il consenso dei consociati in quanto funzionale agli scopi e ai fini dell'ordinamento sociale. Tale concezione, sebbene consideri comunque le norme un prius rispetto ai singoli rapporti sociali, in quanto conferiscono rilevanza giuridica ai rapporti stessi, ritiene tuttavia che sia impossibile spiegare la vigenza delle norme, la loro esistenza e l'obbedienza che esse ricevono, senza risalire all'"istituzione", a ciò che fonda e regge l'ordinamento giuridico. Il diritto non solo non è "estraneo" alla realtà sociale sottostante, ma trova anzi in essa, nei fatti normativi, la sua essenza. In altre parole: prima del diritto esiste il fatto sociale non qualificato da alcuna norma, un'entità sociale che promuove la formazione dell'ordinamento giuridico trasferendo sul piano normativo gli interessi di cui è portatrice. Tra il concreto ordine della società e il sistema delle norme intercorre perciò una relazione giuridicamente rilevante per cui nelle norme si riversano i fini politici perseguiti dalle forze dominanti e già contenuti in una "costituzione materiale" avente valore normativo. Tra le conseguenze più rilevanti di questa concezione vi è quella relativa alla pluralità degli ordinamenti: ogni gruppo sociale è unito da fini comuni e dalla concordanza circa il modo per realizzarli. Questo significa che ogni gruppo costituisce un ordinamento e che esiste identificazione tra gruppo ordinato e diritto. In tale sistema pluralistico lo stato, in quanto ordinamento che persegue fini generali, ha un posto primario. Anche l'essenza dell'ordinamento statuale, come quella di ogni ordinamento giuridico, andrà ricercata nella istituzione, nei valori e negli scopi dominanti in una determinata società. Le differenti forme di stato realizzatesi storicamente non riflettono perciò un'evoluzione tutta interna al diritto, ma al contrario sono espressione di una evoluzione sociale, di mutamenti nei fini e negli scopi prevalenti nei differenti periodi storici.

A. Moroni


H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1951; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova 1975; N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Giappichelli, Torino 1958.
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